L’intervista di Matteo #Renzi al
giornale La #Repubblica è interessante e istruttiva, soprattutto perché più che
offrire soluzioni indica problemi. Problemi che ovviamente attendono di essere
affrontati, ma già il fatto che siano messi sopra il tavolo, dopo un periodo in
cui sembrava di vivere nel paese delle meraviglie, è già qualcosa.
Il primo punto è che dopo tanto
rottamare si torna a parlare di tenere insieme tradizione e futuro. Chi non
potrebbe essere d’accordo? Rimanendo legati al passato si rischia di perdere i
treni ma anche prendendo le carrozze al volo, c’è il pericolo di finire stritolati
sotto le ruote.
Si tratterebbe di capire che cosa
siano questa tradizione e questo futuro. E qui si entra nella seconda parte del
ragionamento renziano, e cioè la necessità di un approccio che non sia solo
mediatico, internettiano ma anche culturale. Con la fatica che questo
comporta. Ridefinire i confini della
sinistra è operazione complessa in un mondo, dove il lavoro non è più quello di
un tempo, i rapporti sociali sono cambiati e le attese si sono modificate. Dove
l’economia s’intreccia con la tecnologia, la sociologia si sposa con la cibernetica
e la storia e la filosofia, quella filosofia tanto bistrattata dai futurologhi,
riprendono il ruolo che gli spetta per approfondire la comprensione del mondo.
Perciò sbaglia chi sostiene che la
sconfitta al referendum sia stata solo un problema di comunicazione, tradotto
in soldoni di vendita di un prodotto . Lì erano in ballo questioni più
complesse, che non potevano, anzi non dovevano, sfuggire a chi della politica
fa il suo pane quotidiano. L’errore è stato non capire il moto di rigetto che,
per vari motivi, uno fra tutti le difficoltà economiche, esisteva nei confronti
del governo.
Detto questo, ci piace che Renzi parli
della necessità di tornare al partito, oddio se si guarda gli ultimi dati sul
tesseramento del Pd c’è da mettersi le mani nei capelli. E anche per questo ci
sono delle ragioni precise. Qualcuno che
ne sa più di noi ci spieghi la ragione per cui un cittadino dovrebbe iscriversi
al PD.
Una volta gli iscritti contavano qualcosa:
se c’erano riforme da approvare se ne discuteva, il segretario nazionale era
eletto dagli iscritti, le questioni locali si dibattevano in sezione. Oggi
tutto il contrario, i sindaci fanno bellamente i cavoli loro, riforme importanti,
come quella costituzionale o la riforma del lavoro, non sono passate da un
esame preliminare degli iscritti e, colmo dei colmi, il segretario possono
votarlo tutti, compresi gli elettori della destra. Con queste premesse noi
vediamo una grande difficoltà a mettere mano al partito. Il motivo è banale, un
vasaio può plasmare la creta se possiede la materia prima, ma se l’argilla
manca c’è poco da fare. E oggi di materia prima (in senso umano) se ne vede
pochina.
Per questo non siamo per niente
d’accordo con Renzi quando dice che bisogna superare i vincoli delle correnti.
Se si vuole più partecipazione bisogna che le correnti dentro il PD siano
istituzionalizzate. Che possano liberamente giocare la loro partita nei congressi,
che si facciano portartici di idee, che si dividano, a seconda dei pesi, le
quote nelle istituzioni.
Allo stesso modo ci lascia un po’ dubbiosi
la necessità, rivendicata da Matteo, di una nuova classe dirigente. Siamo già
alla rottamazione dei rottamatori? Tutto si può dire, ma di vecchioni in giro
se ne vedono pochi, basta guardare la segreteria nazionale, i gruppi
parlamentai e perfino quelli consiliari nei comuni e nelle regioni. Che vuol dire nuova classe dirigente? Noi toglieremmo
quel nuova, e ci fermeremmo a classe dirigente. Il PD, infatti, abbisogna una
classe dirigente all'altezza, il nuovo e il vecchio in questo caso si equivalgono.
Uno dei limiti della stagione renziana è stata l’inadeguatezza culturale e
politica di molti uomini e donne che sono saliti sul carro del vincitore.
C’è bisogno di gente d’acciaio e non
di plastica perché le battaglie saranno dure. Quando Renzi si domanda quali siano
le nuove frontiere dell’esser di sinistra, basterebbe che leggesse (lo avrà
fatto di sicuro) l’ultimo rapporto Oxfam dove si dice che gli otto super
miliardari censiti da Forbes, detiene la stessa ricchezza che è riuscita a
mettere insieme la metà della popolazione più povera del globo. E le diseguaglianze,
divengono micidiali attraverso l’evasione fiscale delle grandi multinazionali, la
massimizzazione dei profitti e la compressione dei salari. Ne deriva che i
livelli delle retribuzioni sono sempre più insufficienti a garantire il minimo
indispensabile alle famiglie. Si pone cioè il tema di quella che alcuni
economisti chiamano “prosperità condivisa”, senza la quale si rischia il
proliferare di movimenti populisti e di vere e proprie rivolte sociali. Non ci
pare un tema da poco.
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