L’argomento
del giorno è l’obbligo di chiusura domenicale per le attività commerciali. Dal
punto di vista dei principi il riposo settimanale non solo è sacrosanto ma è
garantito dalla carta costituzionale: “Il lavoratore ha diritto al riposo
settimanale” (articolo 36).
Ciò
detto bisogna anche capire cosa accadrebbe se questa norma venisse applicata in
un mondo che non ha più i bioritmi del passato. Ho fatto qualche domanda in
giro e ne ho ricavato un quadro ben poco tranquillizzante.
Prendiamo
ad esempio l’outlet, vien fuori che un divieto come quello che è stato anticipato
produrrebbe i seguenti effetti:
Un
calo del fatturato intorno al 30%, una riduzione di circa 300 posti di lavoro, una
diminuzione drastica delle assunzioni stagionali, un calo considerevole
dell’indotto, con conseguente perdita di reddito e ulteriori posti di lavoro. Senza
considerare che ormai i grandi centri commerciali sono diventati le piazze
degli anni 2000, ci si scapiterebbe oltre che economicamente anche socialmente.
Tutto
sbagliato dunque proporre la chiusura domenicale?
No,
perché in punta di diritto le aperture domenicali (e in altri giorni festivi) contrastano
in molti casi con un altro principio costituzionale, quello che dice, riguardo
alle donne lavoratrici ma potremmo estendere il concetto anche agli uomini : “Le
condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale
funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata
protezione.” (articolo 37).
È
indubbio che lavorare di domenica rompe equilibri familiari e costringe a molte
rinunce.
Queste
questioni tuttavia non si affrontano con atti d’imperio, tanto più se si va a
incidere sulla sfera di libertà d’iniziativa privata.
Non
è riportando indietro le lancette dell’orologio che si risolvono i problemi ma
affrontandoli con una prospettiva diversa che tenga insieme diritti e
occupazione, libertà e autonomia.
Il
problema è che spesso dietro la libertà d’iniziativa si nascondono altre cose,
come ha scritto giustamente un commentatore: “Quando il lavoratore di un centro commerciale
non è a tempo indeterminato ma ha un contratto a termine o è obbligato al part
time, oppure ancora è un interinale, uno stagista, o il dipendente di una
cooperativa esterna, con quale forza contrattuale può dire di no al gran numero
di domeniche lavorative che gli vengono chieste? Chi può illudersi che un suo
rifiuto non verrà seguito dal mancato rinnovo del contratto o del servizio?”
L’unica
libertà in questo caso è quella dell’impresa, mentre molti lavoratori “non
riescono a badare ai figli o ai genitori bisognosi di cure durante la domenica,
o più semplicemente a trascorrerla serenamente con i propri cari. E devono
inoltre accontentarsi di una maggiorazione per i festivi che è spesso poco più
di due euro l’ora, ossia 14 in più a domenica”.
Questioni
complesse non si risolvano con gli annunci, occorre trovare un equilibrio, per
esempio prevedere forme di contratto diversificate, defiscalizzare i contratti
per i weekend, maggior incentivi per i festivi, stabilire per legge la validità
dei contratti nazionali a tutti i lavoratori del commercio.
La
capacità del moderno riformismo deve essere proprio quella di tenere insieme i
diritti e la libertà di intraprendere in un mondo che muta costantemente ogni
giorno.
Tanto
più che un divieto come quello che è stato annunciato servirebbe solo a fare un
regalo all’e-commerce.
Se
le cose stanno così da un lato rischiamo di perdere posti di lavoro, diminuire
i consumi, mettere in crisi interi settori e l’unico che ne trarrebbe vantaggio
è un colosso come Amazon. Possibile che
non esista una soluzione equilibrata?
Paolo Brandi
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