domenica 20 novembre 2016

IL REFERENDUM E IL VOTO DEL BUSINESS MAN


Una nostra amica ci ha raccontato che suo padre gli diceva “prima di decidere come votare, guarda dove votano i ricchi e regolati di conseguenza”. 
Il metodo, in verità, appare alquanto empirico, ma alla fine contiene un fondo di verità, perché i ricchi che votano contro i propri interessi sono rari come le mosche bianche. E poiché, di norma, i loro interessi raramente coincidono con quelli delle altre classi sociali il gioco è fatto. Qualcuno potrà dire che questa è roba del secolo scorso, ciarpame e ideologia.  Lo credevamo anche noi, convinti che lo sviluppo armonioso di una società si componesse di una bella fetta di mercato, un robusto stato sociale e la possibilità per tutti di salire la scala sociale.

Invece non è così, perché il divario tra ricchi e poveri aumenta, la mobilità sociale è ingessata e la rendita finanziaria si mangia il lavoro. 
Questa storia del lavoro è tornata prepotentemente di moda quando ci si è accorti che quel populista di Trump ha vinto le elezioni, in diversi stati dell’unione, mettendo il lavoro tra i temi in agenda.
Noi dubitiamo che Trump abbia letto Marx però quest’ultimo affermava che “l’umanizzazione della vita non può che compiersi attraverso il lavoro che è innanzitutto il modo col quale si manifesta l’essenza dell’uomo in quanto tale”. Quindi, se quest’ultimo manca, viene meno anche una parte di umanità oltre che di reddito. Una lezione che il magnate americano ha messo in partica quando ha parlato di lavoro a uomini e donne sradicati nella loro stessa terra e privi ormai di una identità.
Cosa c’incastra tutto questo col referendum prossimo venturo? Poco o niente verrebbe da dire. E invece sarebbe una bella sfida capire come i futuri assetti costituzionali potrebbero incidere sui parametri dell’economia. Ecco allora delinearsi uno schieramento ben preciso.  
Confindustria è scesa in campo a favore del SI, così come hanno fatto altre associazioni di categoria. David Flokerts Landau, capo economista della Deutsche Bank ha detto che “un’Italia senza riforme starebbe meglio fuori dall’euro”.
I report degli analisti auspicano il passaggio della riforma, “una precondizione importante per continuare il processo di riforme italiane”, come ha scritto la Morgan Stanley. Lo stesso dicono le banche d’affari, “se vincesse il No” afferma ad esempio Goldman Sachs “l’aumento di capitale di Mps avrebbe difficoltà ad andare in porto con il rischio di travolgere con effetto- domino gli altri istituti in difficoltà”.
41 dei 42 manager delle grandi aziende italiane  hanno confessato che voteranno Sì.  Insomma la business community è schierata.

Se è così una ragione deve pur esserci e siccome questa gente non fa beneficenza, tranne mettersi la coscienza in pace con un po’ di  “compassionate conservatorism”, cioè quel sistema, vecchio quanto il cucco,  dove i ricchi fanno la carità ai poveri. Ecco allora che ritorna il vecchio adagio “prima di decidere come votare, guarda dove votano i ricchi e tu regolati di conseguenza”.   

Nessun commento:

Posta un commento