Leggere qualcosa, ogni tanto, non fa
male, se volete una lettura che rompe (finalmente) gli schemi di un dibattito
ozioso e ammuffito, vi consigliamo “Il tradimento. Globalizzazione e
immigrazione, le menzogne delle élite” di Federico Rampini. 204 pagine di buona
lettura, anche se poi alla fine ne potevano bastare cento.
Ma quello che conta non è la lunghezza,
è il contenuto, e dobbiamo dire, con un certo stupore, che per la prima volta
siamo al 99,9% d’accordo con quello che Rampini scrive sulla situazione del
mondo.
Quello che ci ha colpito di più, è stata
la sua critica (che poi in buona parte è anche una autocritica) a quelle che lui definisce le Élite, una
critica feroce alla loro miopia, alla loro protervia intellettuale. Un vero e
proprio schiaffo in faccia a quella classe di persone che per disponibilità finanziaria,
posizione sociale, origini, mentalità, forma ormai una classe transnazionale.
Una classe con gli stessi gusti, gli stessi interessi e, per certi versi, le
stesse aspettative. Una classe che galleggia sopra la gente comune e pretende
che le sue idee, le sue concezioni della vita, mirabilmente rappresentate in
certe pubblicità, diventino il pane quotidiano anche per coloro che non
arrivano alla fine del mese ed hanno in molti casi il frigorifero tristemente
vuoto.
Cosa dice Rampini?
Che la vittoria degli antieuropeisti
in Gran Bretagna, l’elezione di Trump, le derive autoritarie in Polonia e
Ungheria, il risveglio di una tradizione mai sopita di odio etnico in molti
paesi, in particolare dell’est Europa hanno un elemento in comune: la paura. E’
come quando si cammina in un bosco oscuro e tenebroso, se si comincia ad aver paura,
si torna indietro.
Ma paura di che? Del terrorismo, di
una crisi economica perdurante, di un’immigrazione incontrollata, di un futuro incerto
per se e per i propri figli, paura di una globalizzazione che invece di dare
più possibilità a tutti ha impoverito interi strati sociali.
In questa situazione s’inserisce il tradimento
delle élite. Rampini le identifica in un ceto privilegiato: politici,
tecnocrati, alti dirigenti pubblici nella sfera di governo; capitalisti,
banchieri, top manager nella sfera dell’economia. Intellettuali, pensatori,
opinionisti, giornalisti, educatori.
Il tradimento delle élite è avvenuto
quando questo gruppo di persone ha creduto in maniera fideistica alla globalizzazione
teorizzando e propagandando i benefici delle frontiere aperte. Quando ha continuato a sostenere questo tipo
di Europa mentre per milioni di persone l’euro e l’austerity sono diventati
sinonimi di un grande fallimento.
Il tradimento c’è stato nella difesa di
ogni forma d’immigrazione, senza vedere che insieme a quei poveri cristi che sbarcavano
dalle navi cresceva la minaccia dell’estremismo islamico. Un estremismo che gioca fuori dagli
schemi e se ne frega dei nostri valori e del nostro buonismo, anzi utilizza gli
interstizi dello stato di diritto per crescere e prosperare.
Ma la parte più interessante del
ragionamento di Rampini è quella dove afferma che “Il tradimento delle élite è
continuato praticando l’auto colpevolizzazione permanente, una sorta di
riflesso pavloviano ereditato dai tempi in cui ”noi” eravamo l’ombelico del
mondo: come se ancora oggi ogni male del nostro tempo fosse riconducibile
all'Occidente, e quindi rimediabile facendo ammenda dei nostri errori. Il
tradimento delle élite ha giustificato ogni violenza contro di noi
riconducendola ai nostri peccati ancestrali; e così ha illuso che il mondo
possa tornare ”in ordine” se soltanto l’Occidente si pente e imbocca la retta
via”.
Insomma il politicamente corretto si è
trasformato in un atto di pura fede per cui “tutto ciò che unisce al di là delle
frontiere è stato considerato positivo per definizione: trattati di libero
scambio, organizzazioni multilaterali. Si è reso omaggio sempre e ovunque alla
società multietnica, senza voler ammettere che questo termine in sé non vuol
dire niente: affermare società multietnica non ci dice qual è il risultato
finale, il segno dominante, il mix di valori che regolano una società capace di
assorbire flussi d’immigrazione crescenti. Da tempo gli Stati Uniti sono
multietnici; lo è l’India; lo è il Brasile; lo è la Russia; lo sono la Turchia
e l’Iraq con le loro minoranze armene o curde. E noi, a chi vogliamo
assomigliare?”
Ecco allora che per uscire da questa situazione
chi crede ancora in un mondo migliore ha l’obbligo di fare una scelta, una
scelta di vita. La sinistra deve rivedere a fondo le sue politiche lavorando “per
un'economia liberata dai ricatti delle multinazionali e dei top manager;
un'immigrazione governata dalla legalità e nella piena osservanza dei nostri
principi; una democrazia che torni a vivere della partecipazione e del
controllo quotidiano dei cittadini; e, infine, un dibattito civile ispirato
all'obiettività e al rispetto dell'altro, non ai pregiudizi, all'insulto e alla
gogna mediatica dei social”.
Una lezione che non può che trovarci d’accordo.
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