venerdì 7 ottobre 2016

AREZZO UNA ECONOMIA IN CRISI E CHE SI FA?

In giro ci sono strani personaggi che, secondo i dati statistici del giorno, degli sponsor o degli inserzionisti s’inventano improbabili riprese dell’economia locale, oppure, di converso, parlano di crisi senza fine.
Anche stavolta assistiamo a questa pantomima. Fino a qualche mese fa l’economia aretina sembrava aver ripreso a tirare come una locomotiva, oggi, invece, siamo di nuovo sull'orlo del baratro.
In effetti, gli ultimi dati che arrivano dagli istituti di ricerca non inducono all'ottimismo. I numeri sono impietosi per la provincia di Arezzo e in parte anche per la Toscana.
La Toscana si colloca, infatti, in una fascia mediana rispetto al PIL nazionale con un +0.8, mezzo punto in più delle regioni del sud ma con tre decimali in meno rispetto alle aree geografiche più dinamiche.

Purtroppo la nostra regione, nonostante le sue enormi potenzialità, che vanno dal manifatturiero d’eccellenza al turismo, sembra impaludata, prigioniera della sua bellezza, soffocata dalla burocrazia e destinata, se non cambia marcia, a specchiarsi solo su se stessa.
Ma l’argomento che ci interessa di più è quello che riguarda la provincia di Arezzo.
Alcuni analisti si accorgono, solo oggi, che il distretto orafo di Arezzo (e quella della moda) soffrono di difficoltà pesanti. Quest’anno si è perso un altro 6% di fatturato. Tra aprile e giugno 2016, le esportazioni sono crollate del 10,4%. Qualche anima bella credeva che puntando tutto sull’export avremmo risolto molti dei nostri mali. Pia illusione: Le vendite negli Emirati Arabi hanno iniziato a crollare (-19,5% nel 2016), la recessione mondiale e la frenata dell’economia di Pechino aggiungono difficoltà a  difficoltà.
Questi sono i numeri e con i numeri c’è poco da discutere.
Però quest’analisi, rivolta solo all’oggi, è vera solo a metà, perché non tiene conto di quello che era il comparto orafo ad Arezzo e quanto abbia pesato in termini economici e sociali per lo sviluppo di questa provincia.
Dall’inizio della crisi quanti morti e feriti sono rimasti sul campo in un settore che ancor oggi conta 1298 aziende e circa 7500 addetti?
Nessuno risponde. Ma intanto la provincia soffre di una disoccupazione giovanile accentuata, trova grandissime difficoltà a ricollocare lavoratori espulsi dai processi produttivi, contrae i consumi e non appare in grado, tranne qualche raro caso, di poter competere su mercati sempre più difficili.
La verità, come dimostrano anche le vicende della più importante banca locale (che stanno ovviamente su di un altro piano), è che è mancata una strategia in grado di dare risposta a una crisi che già, dal 2008 dava segnali precisi. Ci si è affidati allo stellone oppure ad analisi raffazzonate, che ripetevano come un mantra sempre le stesse cose. 
Cosa si è fatto per tentare di dare una sterzata? Cosa si è fatto per rispondere ai mutamenti del sistema del credito che, si sapeva, avrebbero messo in crisi molte imprese? Ben poco.
A leggere certi commenti sembra di stare dentro il gioco dell’oca dove si ritorna al punto di partenza. Quando si racconta che i problemi per le nostre imprese sono l’accesso al credito, la pressione fiscale, la debolezza del mercato interno si dice delle ovvietà. Il problema non è fare un elenco delle malattie, quello più o meno sono capaci tutti, ma è indicare una terapia, senza dimenticare un punto essenziale, che per la ripresa del mercato interno c’è un punto doloroso che si chiama perdita del potere d’acquisto.
Quando gli stipendi sono fermi a cinque sei anni addietro e hanno perso il 20% del potere d’acquisto ma dove diavolo si vuole andare? La gente che tra tasse locali, bollette, e balzelli fa fatica ad arrivare a fine mese avrà voglia di fare shopping? 
Non si vogliono o non si possono aumentare gli stipendi? Va bene. Troviamo altre soluzioni.  Tempo fa è uscita un’analisi che mostrava come si potrebbero recuperare risorse per investimenti e consumi attraverso la riduzione del cuneo fiscale (altra piaga biblica di questo paese).
Il rovescio della medaglia è però la lotta all'evasione. Ma non all'evasione di necessità, quella per cui se un’azienda dovesse pagare tutto il dovuto chiuderebbe i battenti. La battaglia fiscale va fatta nel campo delle sperequazioni macroscopiche per cui in Italia, grazie proprio alla crisi, c’è stato un aumento della differenza tra ricchi e poveri con la graduale scomparsa della  classe media. Cosa che si avverte anche dalle nostre parti.

Insomma questa provincia soffre di mali tipici e di malattie generali. Ma se da qualche parte non si comincia a ragionarne su come affrontarli, al di là delle litanie a cui siamo abituati, andrà sempre peggio. In tanti dovrebbero cominciare a dare delle risposte: Associazioni Economiche, Camera di Commercio, Istituzioni, partiti politici ma per ora ognuno coltiva il suo orticello e, quando va bene partecipa, insieme agli altri, alla fiera delle banalità. Una fiera dove si vendono prodotti spesso scadenti e qualche volta perfino scaduti. 

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