“Siamo totalmente disponibili a
cambiare l’Italicum” queste pare siano state pronunciate da #Renzi dall'altra
sponda dell’Atlantico. Se fossero vere, darebbero
da pensare. Intanto ne escono smentiti tutti gli epigoni che, fino ad oggi, definivano la #legge elettorale come la più
bella del mondo, la più funzionale, quella in grado di garantire un futuro roseo
al popolo italiano.
Noi, che abbiamo fatto le elementari
in tempi in cui non esisteva il computer e vestivamo con un grembiule nero e il
fiocco azzurro, continuiamo a pensare che alla base del benessere di una
nazione ci sia un’economia che funziona, in grado di offrire #lavoro e
ridistribuire equamente il reddito.
La legge elettorale, così come le riforme
costituzionali non sono da sole garanzia di benessere. La stabilità dei governi
è una possibile condizione di crescita ma non necessariamente la condizione
essenziale. Se così fosse un regime come quello #sovietico (stabilissimo nella
sua nomenclatura) avrebbe dovuto durare in eterno e invece è crollato.
Però se Renzi è disponibile a
ragionare su una modifica della legge elettorale, è una buona cosa perché il
combinato disposto tra Italicum e riforma costituzionale rischia di generare un
animale mostruoso, con la testa grossa e il corpo piccolo. Ma riformare per andare dove?
Dentro il PD, azionista di maggioranza
del governo, si rincorrono parecchie idee: dal modello greco al doppio turno di
collegio. Pare (il dubitativo è d’obbligo) che da parte dei 5 stelle sia
arrivata la proposta di un ritorno al proporzionale puro con preferenza. Anche
questa è bella, fino all’altro giorno difendevano l’Italicum oggi si riconvertono
nel suo opposto. Però, tra tutte le
ipotesi sul tavolo, quest’ultima è quella che ci convince di più. Il motivo è
semplice il proporzionale è quanto di più vicino ci sia alla democrazia
diretta. Una testa un voto. Non ci sono teste che valgono di più e teste che valgono di meno. E la preferenza (quella cosa per cui io,
elettore, indico chi dovrebbe rappresentarmi) costringerebbe i candidati a rapportarsi
con il territorio (e i suoi problemi) e non solo con le segreterie nazionali.
Sarebbe un passo indietro?
Un saggio passo indietro, perché la
democrazia è fatta di opinioni e idee diverse (e quindi anche di partiti
diversi) e tutti hanno il diritto di correre e di esser rappresentati. La
democrazia è un grosso stomaco di vacca che ha i suoi tempi per digerire e
ruminare leggi e decisioni. La
democrazia non può essere compressa a tal punto da costringere uomini e donne
che sarebbero buoni vicini di casa a una forzata convivenza.
Da qualche tempo è invalsa l’idea che velocizzare
le decisioni sia sinonimo di efficienza, dipende da quali decisioni si
prendono. La fretta non è mai stata una buona consigliera. Meglio un mese in
più per ragionare che varare un provvedimento che si rivela una
stupidaggine.
A qualcuno, invasato dalla rete, da internet,
dalle transazioni finanziare globali queste parole possono sembrare una
aberrazione. Giacché ci siamo ne sosteniamo un’altra: e cioè che il PD ha bisogno,
se vuole una bella boccata d’ossigeno, delle correnti organizzate. Questa cosa
fa schifo a molti e invece sarebbe un toccasana, perché chiarirebbe quali sono
davvero le idee in campo, le culture politiche, le storie e le prospettive
della più grande forza del centrosinistra. Parliamoci onestamente le correnti
fanno venire l’orticaria a chi vuol stare con il piede in tutte le staffe, a
chi predica la trasversalità generazionale (leggi rottamazione) con i risultati
che abbiamo visto. Con le correnti si selezionerebbero
invece i migliori perché ognuno dovrebbe mettere in campo una squadra vincente.
Si eviterebbero così tanti sottoprodotti politici che, fino a qualche anno fa, avrebbero
frequentato con profitto (scarso) le sezioni comunali e non le aule del
parlamento.
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