Secondo
il dettato costituzionale “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie,
di bilancio, amnistia e indulto, di
autorizzazione a ratificare trattati internazionali ”.
I
motivi sono facilmente comprensibili: sarebbe fin troppo facile abolire leggi
che impongono le tasse, squilibrando così i conti dello Stato, com'è altrettanto evidente che indulti e amnistie sono argomenti ben poco popolari
tra la gente. Per quanto riguarda invece i trattati internazionali è palese che
in materia di rapporti tra stati gli impegni devono essere rispettati e quindi
non possono sottostare alla spada di Damocle di un referendum.
Rispetto all'appuntamento di domenica riteniamo legittima qualunque posizione, compresa
quella dell’astensione. Se, infatti, esiste un quorum per la validità del
referendum astenersi è una “posizione politica” che ha la stessa dignità del No
o del Si. Certo sarebbe preferibile che i contrari si presentassero alle urne, senza
succhiare la ruota degli astensionisti di mestiere, che ormai rappresentano una
bella porzione di elettorato.
Ma
queste faccende riguardano marginalmente la domanda che poniamo: se il referendum
non è ammesso per questioni di bilancio e tributarie (perché nessuno paga
volentieri le tasse) è giusto sottoporre a referendum leggi che riguardano le
politiche energetiche di un paese?
Questo
quesito vale indipendentemente dalla quantità di petrolio o gas che viene
estratto dalle piattaforme. Parliamoci chiaro, qui non è in ballo la scelta tra
combustibili fossili ed energie pulite. Col referendum non si vieta di
utilizzare petrolio, carbone o gas. Quindi dire che è una scelta “di vita” non
è corretto, però si sancisce un principio, e cioè che i referendum possono
decidere sul futuro degli investimenti, sul destino di tanti lavoratori e
sancire quindi la fragilità della politica industriale del paese.
Il
fatto è che da quando è stata approvata la Costituzione di acqua sotto i ponti,
ne è passata parecchia, allora il tema energia non era così importante. Oggi
l’energia è diventata strategica per la nazione e la sua economia.
Ripetiamo
la domanda, è giusto delegare a un referendum decisioni di questo tipo?
A
nessuno piace che nel suo territorio ci siano centrali elettriche, a nessuno
piace che vicino casa installino un parco fotovoltaico, nessuno ama le centrali
a biomasse, i gassificatori, le dighe, il geotermico, in pochi venerano le pale
eoliche.
L’Italia
ha il brutto difetto di essere stretta, lunga e antropizzata (cioè ci abita
parecchia gente), non ha spazi disabitati dove sistemare tutta questa roba e
quindi alla fine qualcuno che si lamenta si trova sempre.
Su
queste faccende la politica non ha il coraggio di decidere perché dietro ogni
angolo è pronto il comitato, l’intellettuale con buoni agganci nei giornali, gli
pseudo esperti pronti ad azzannarti alla gola con argomentazioni da “guerra dei
mondi”: tumori, malattie respiratorie, terremoti, balene moribonde, uccelli
migratori impazziti, vitelli con due teste, donne sterili. Un campionario che spaventerebbe
perfino un tipo tosto come Gengis Khan.
Il
percorso intrapreso dalle Regioni contro le trivelle è comprensibile, però si
ritorna al punto di partenza: contano più gli interessi di una singola regione
o quelli di un intero paese? E’ manifesto che qualora questi impianti fossero
dannosi per la salute pubblica sarebbe tutta un’altra storia, ma allora
andrebbero vietati del tutto, senza aspettare la scadenza della concessione.
Se
poi uno va a votare per fare dispetto a Renzi è affar suo, ma in questo caso il
petrolio e i suoi derivati non c’entrano una pippa.
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