Un articolo di Sergio Rizzo,
sul Corriere della Sera di oggi, se ne esce con un titolo indicativo “Le
metamorfosi della città dell'oro, dove, il PD ha il vestito della Dc e la banca riflette la crisi
d'identità”.
Ottima
la sintesi, anche se poi l’analisi non dice molto, anzi ripete cose dette e ridette, eccetto una: l’abitino “democristo” del PD.
Andiamo
per ordine. Che la crisi della banca rinvii a una perdita d’identità del
territorio è un fatto scontato. La storia parte da lontano e si dipana in due
fasi: la prima quando nel 1988 vi fu la fusione con la Popolare dell’Alto Lazio
e la seconda quando, a metà anni duemila, si chiuse un’epoca storica nella
conduzione della banca.
La
questione, come viene evidenziato nell'articolo, non è data solo dallo
spostamento dell’asse geografico e degli assetti di potere che, per certi versi,
sono conseguenti. Il problema più grosso è che la centralità della banca è entrata
in crisi insieme alla struttura produttiva del territorio.
In
questo la politica, e chi ha avuto responsabilità di governo lo sa bene, portala
pesante responsabilità di non aver compreso il mutamento in atto. E’ cioè
mancata in quegli anni, indipendentemente dal ruolo della banca, una strategia
che desse una prospettiva a questa provincia e al suo apparato produttivo.
Oggi
i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Di
là dai numeri sciorinati dagli istituti di ricerca la situazione occupazionale,
specie quella giovanile, non è felice e si stenta a capire quale poterebbe o dovrebbe
essere la vocazione del nostro territorio. Fin qui l’articolo di Rizzo aggiunge
poco, anzi per certi versi rischia di essere persino noioso.
Il
surrogato alla noia è la disamina che lui fa del PD aretino, con
un’affermazione piuttosto perentoria per cui questo partito porta il marchio
d’origine della vecchia Democrazia Cristiana.
E’
proprio vero che il PD aretino ha il vestito della DC? Magari! Se non altro
sapremmo di cosa si parla.
Ragionare
oggi di Dc, Pci, Psi con riferimento al PD aretino appare però un esercizio
retorico. Chi aveva vent'anni nel 1991, quando il PCI si sciolse, diventando
PDS, oggi ha 43 anni. Nessuno di quella classe d’età, se non marginalmente, ha
vissuto la storia dei partiti italiani del dopoguerra, la contrapposizione
frontale tra due blocchi ideologici, la lotta politica che si nutriva d’ideali
(per quanto fallaci e ingenui).
Chi
oggi è nell’età della piena maturità, per non parlare di quelli delle generazioni
successive e che formano il nerbo dei nuovi partiti (ammesso che questa definizione
sia ancora valida) sano poco o niente di Democristiani, Comunisti, Repubblicani
o Missini. O meglio l’avranno letto (qualcuno, non tutti) sui libri di storia
ma non l’hanno certo vissuto sulla propria pelle. Non hanno quel marchio
indelebile che contraddistingue i reduci sopravvissuti a quella stagione.
Ecco
perché l’analisi di Rizzo ci lascia dubbiosi. Qui non siamo alla riedizione
della prima repubblica, siamo su un’altra dimensione, dove la gravità del
passato è sostituita dalla levità del presente.
Cos'è oggi il PD e non solo quello aretino? Questa è una bella domanda. I nuovi
dirigenti del PD hanno poco dei vecchi partiti, eccetto una certa dimestichezza
con la spregiudicatezza. Caratteristica che a noi piace, ci ricorda l’arditismo
delle truppe d’assalto, inevitabile quando c’è da attaccare le trincee.
Il
problema è che alla lunga non avere una storia alle spalle genera un vuoto. Un
vuoto dove volteggiano uccellacci di tutte le razze. Non basta ispirarsi a Tony Blair. Il premier inglese aveva alle
spalle la London School of Economics and Political Sciences. Altra
roba, e non bastano le ripetizioni estive per recuperare a settembre.
L’importante
è non arrendersi alla deriva e rimettere la barra per il verso giusto ma questo
non potrà avvenire fino a quando non si ritorna a quella parola, a oggi
pesantemente sputtanata, che si chiama politica. Vale ad Arezzo e anche in
altri posti.
Nessun commento:
Posta un commento