lunedì 21 dicembre 2015

LA METAMORFOSI DEL PD

Un articolo di Sergio Rizzo, sul Corriere della Sera di oggi, se ne esce con un titolo indicativo “Le metamorfosi della città dell'oro, dove, il PD ha il vestito della Dc e la banca riflette la crisi d'identità”. 
Ottima la sintesi, anche se poi l’analisi non dice molto, anzi ripete cose dette e ridette, eccetto una: l’abitino “democristo” del PD.

Andiamo per ordine. Che la crisi della banca rinvii a una perdita d’identità del territorio è un fatto scontato. La storia parte da lontano e si dipana in due fasi: la prima quando nel 1988 vi fu la fusione con la Popolare dell’Alto Lazio e la seconda quando, a metà anni duemila, si chiuse un’epoca storica nella conduzione della banca.
La questione, come viene evidenziato nell'articolo, non è data solo dallo spostamento dell’asse geografico e degli assetti di potere che, per certi versi, sono conseguenti. Il problema più grosso è che la centralità della banca è entrata in crisi insieme alla struttura produttiva del territorio.
In questo la politica, e chi ha avuto responsabilità di governo lo sa bene, portala pesante responsabilità di non aver compreso il mutamento in atto. E’ cioè mancata in quegli anni, indipendentemente dal ruolo della banca, una strategia che desse una prospettiva a questa provincia e al suo apparato produttivo.
Oggi i risultati sono sotto gli occhi di tutti.
Di là dai numeri sciorinati dagli istituti di ricerca la situazione occupazionale, specie quella giovanile, non è felice e si stenta a capire quale poterebbe o dovrebbe essere la vocazione del nostro territorio. Fin qui l’articolo di Rizzo aggiunge poco, anzi per certi versi rischia di essere persino noioso.
Il surrogato alla noia è la disamina che lui fa del PD aretino, con un’affermazione piuttosto perentoria per cui questo partito porta il marchio d’origine della vecchia Democrazia Cristiana.
E’ proprio vero che il PD aretino ha il vestito della DC? Magari! Se non altro sapremmo di cosa si parla.
Ragionare oggi di Dc, Pci, Psi con riferimento al PD aretino appare però un esercizio retorico. Chi aveva vent'anni nel 1991, quando il PCI si sciolse, diventando PDS, oggi ha 43 anni. Nessuno di quella classe d’età, se non marginalmente, ha vissuto la storia dei partiti italiani del dopoguerra, la contrapposizione frontale tra due blocchi ideologici, la lotta politica che si nutriva d’ideali (per quanto fallaci e ingenui).
Chi oggi è nell’età della piena maturità, per non parlare di quelli delle generazioni successive e che formano il nerbo dei nuovi partiti (ammesso che questa definizione sia ancora valida) sano poco o niente di Democristiani, Comunisti, Repubblicani o Missini. O meglio l’avranno letto (qualcuno, non tutti) sui libri di storia ma non l’hanno certo vissuto sulla propria pelle. Non hanno quel marchio indelebile che contraddistingue i reduci sopravvissuti a quella stagione.
Ecco perché l’analisi di Rizzo ci lascia dubbiosi. Qui non siamo alla riedizione della prima repubblica, siamo su un’altra dimensione, dove la gravità del passato è sostituita dalla levità del presente.
Cos'è oggi il PD e non solo quello aretino? Questa è una bella domanda. I nuovi dirigenti del PD hanno poco dei vecchi partiti, eccetto una certa dimestichezza con la spregiudicatezza. Caratteristica che a noi piace, ci ricorda l’arditismo delle truppe d’assalto, inevitabile quando c’è da attaccare le trincee.
Il problema è che alla lunga non avere una storia alle spalle genera un vuoto. Un vuoto dove volteggiano uccellacci di tutte le razze. Non basta ispirarsi  a Tony Blair. Il premier inglese aveva alle spalle la London School of Economics and Political Sciences. Altra roba, e non bastano le ripetizioni estive per recuperare a settembre.
L’importante è non arrendersi alla deriva e rimettere la barra per il verso giusto ma questo non potrà avvenire fino a quando non si ritorna a quella parola, a oggi pesantemente sputtanata, che si chiama politica. Vale ad Arezzo e anche in altri posti.  

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