In Valdichiana si discute troppo poco
del futuro. Il cono d’ombra maggiore è dato dall'assenza di una strategia
politico-amministrativa in grado di ridare una prospettiva alla nostra vallata.
La crisi ha lasciato un’eredità
pesante: imprese chiuse, altre ridimensionate, aumento della disoccupazione,
scarse possibilità per i giovani. E’ pur vero che esistono punte di eccellenza,
ma non bastano a compensare quello che si è perso.
Da quanto tempo manca una riflessione,
sia a destra sia a sinistra, sul destino della Valdichiana?
Al di là della retorica su agricoltura
di qualità, biologico, turismo, servizi avanzati si avverte pesante il vuoto di
idee. Che fare? Di fronte a questa domanda in parecchi scuotono la testa.
In questo senso può venirci in aiuto
un bel libro di Giuseppe Berta intitolato “Che fine ha fatto il capitalismo
italiano?”.
Sia chiaro, non è che in questo libro
il professore parli della Valdichiana, però alcune tesi sono davvero
interessanti.
Il primo punto è che l’Italia della
grande industria del novecento sta andando incontro a un processo di
disfacimento. Gli esempi in tal senso non mancano dall’Ilva di Taranto, al
polo dell’acciaio di Piombino, alla Pirelli.
Dobbiamo dunque rassegnarci al peggio?
Non è proprio così, esiste, infatti,
una seconda faccia del capitalismo italiano che mostra risultati più
incoraggianti: è l’Italia delle imprese intermedie.
E’ da lì che occorre ripartire. Da
quel modello d’industrializzazione formato da imprese locali, spesso a gestione
familiare, diffuse sul territorio e prevalentemente legate alla campagna e alle
città medio-piccole.
Secondo Berta la dimensione su cui
l’Italia dovrà ricostruire il suo sviluppo è proprio questo. Tuttavia un
percorso incentrato sulle piccole e medie imprese non può avvenire
spontaneamente, ha bisogno di un sostegno
forte sui territori. In questo senso la politica deve recuperare lungimiranza e
senso della prospettiva.
Tradotto in un linguaggio più comprensibile,
significa che la Valdichiana deve finalmente far fronte comune. Il modello cui
ispirarsi è quello del recupero della tradizione declinata sul tempo del
futuro.
Per scendere nel concreto è di qualche
giorno fa l’intervista di Gaetano Maccaferri (patrona dell’omonimo gruppo, già proprietario
della SADAM) che celebra le performance del Sigaro Toscano. Ecco una
possibilità. E’ mai stato fatto un tentativo,
per capire se fosse possibile sviluppare un progetto turistico/industriale che
parta dal marchio del sigaro toscano? Magari utilizzando, a tal proposito, l’area
dell’ex zuccherificio?
Il sigaro toscano è un marchio
appetibile, conosciuto in tutto il mondo, in grado di suscitare fantasie e
attrazione.
Purtroppo, ancor oggi, il destino di quel
pezzo importante di territorio vaga nelle nebbie dell’incertezza, tutto tace o corre
sotto traccia.
Ma accanto a questo ci sono altre cose
da concretizzare. Una tra tutte il sistema del credito. Anche qui è passata, quasi
in silenzio, l’aggregazione di due importanti gruppi bancari del settore
cooperativo. Eppure sappiamo quanto il credito locale sia utile allo sviluppo
delle imprese medio/piccole.
Ma tutto questo in mancanza di una
strategia conta poco. Ognuno va per conto suo e il territorio non cresce.
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