Il
referendum del 4 dicembre non riguarda solo la riforma del senato, anche se il
grosso della discussione sembra concentrato solo su quel punto. La sterzata,
che qualcuno ha voluto dare alla campagna referendaria, per acchiappare voti, è,
infatti, mirata ai costi della politica e indubbiamente la riduzione dei
senatori porta a un contenimento della spesa. Però limitare il senso di una riforma
costituzionale solo a una questione di soldi è pericoloso perché, che come dimostrano
recenti proposte di legge, un obbiettivo analogo e forse più consistente, si
potrebbe raggiungere modulando, a livelli europei, gli emolumenti dei parlamentari.
Però su questo punto gli sforbiciatoci delle spese della politica fanno “melina”
mostrando come, alla fine, la questione del risparmio sta in secondo piano rispetto
agli obbiettivi politici.
Ma
in pentola non c’è solo la riforma del senato, c’è un altro aspetto altrettanto
interessante relativo alla revisione delle competenze regionali. Un passaggio che
passa sotto silenzio ma che mette in un angolo lunghi anni di discussione sul regionalismo,
sul decentramento e registra un cambio di rotta rispetto a tante battaglie che
avevano visto impegnato le forze politiche.
La
riforma Boschi “de facto” riaccentra le competenze a favore dello Stato a
scapito delle regioni. Secondo i sostenitori della riforma questa modifica si
rende necessaria per evitare duplicazioni e superare l’enorme contenzioso
apertosi alla Corte Costituzionale.
Se
volessimo, entrare nel merito “tecnico” ci accorgeremmo che il contenzioso
costituzionale fra Stato e regioni è dovuto alle “competenze concorrenti” e dal
fatto che la riforma del 2001 non è stata completata da una legislazione nazionale
che definisse con chiarezza le materie. Quindi le responsabilità non sono da
attribuire alle regioni.
Il
disegno dunque è di altra natura ed è quello di un ritorno al centralismo, in
perfetta coerenza con il rafforzamento dell’esecutivo e di una legge elettorale
che rischia di depotenziare gli organi di rappresentanza.
Per
di più con la riforma proposta si creerà una disparità mostruosa tra cittadini
che vivono nelle regioni a statuto ordinario e quelli che vivono nelle 5
regioni a statuto speciale. Mentre con la riforma del 2001 si sono estese alle
regioni speciali le autonomie attribuite a quelle ordinarie, qui, al contrario,
si esclude l’applicazione a quest’ultime delle nuove norme più restrittive, ne
si potranno modificare in futuro senza il consenso dei consigli regionali delle
regioni a statuto speciale. Il che significa che la modifica restrittiva per le
cinque regioni “privilegiate” non avverrà mai. Perchè non s’è mai visto
qualcuno che sceglie di togliersi potere e risorse.
Questo
per quanto riguarda gli aspetti tecnici, sul piano politico il ritorno di
fiamma del centralismo pone un problema al PD. Intanto perché su questo punto, cioè
sul riassetto dello stato, si dovrebbe dire con chiarezza in quale direzione si
vuol marciare, un neocentralismo di stampo Bonapartista oppure un regionalismo
seppure in versione soft?
Rimaniamo
basiti nel costatare che tanti presidenti di regione, fino all’altro giorno alfieri
del regionalismo più spinto, fino a prefigurare macroregioni dai nomi più
strampalati, oggi siano pedissequamente schierati sul fronte del SI. Noi che siamo
cinici e guardiamo più al portafoglio che ai sentimenti crediamo che questo
dipenda molto dal fatto che sull’altare del risparmio (presunto), siano state
immolate le provincie e non le regioni che, a guardar bene, sono tra i maggiori
centri di spesa dello Stato.
Insomma
una specie di patto col diavolo che col tempo, diminuendo le competenze, non
potrà durare.
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