Oscar Farinetti è considerato un grande imprenditore,
uno capace di guardare al futuro. La sua creatura, Eataly, “un brand che oggi
vale 300 milioni di euro” si è imposta in pochi anni alla attenzione dei
mercati, trovando sostenitori entusiasti nel mondo dell’impresa e della
politica. Che cosa è Eataly? Com’è spiegato nel sito web “Eataly
è mangiare italiano, vivere italiano. Il nostro obiettivo è dimostrare che
l'alta qualità dell'enogastronomia italiana è alla portata di tutti”.
Tutto bello, peccato che queste premesse entrino in
rotta di collisione con quanto affermato in un’intervista dallo stesso Farinetti:
“Per fare
pasta di alta qualità serve grano duro che in Italia è difficile trovare”. Questa
è la ragione per cui per cui Eataly compra materia prima anche all’estero, in
Canada e Usa, dove, sempre a detta del patron «non c’è paragone a livello
qualitativo”.
Questa dichiarazione ha suscitato un mare di polemiche
perché parrebbe contrastare con la filosofia dell’azienda. Infatti, come la
filosofia kantiana non può prescindere dalle “categorie”, cosi Eataly non può
fare a meno dalle materie prime prodotte in Italia. Altrimenti il mangiare
italiano, tanto per rimanere in tema, va a frasi friggere.
Da buon imprenditore Farinetti ha reagito con i numeri:
“In Italia produciamo 4 milioni di tonnellate di grano l’anno. Ma ce ne servono
tra 7 e 8. Per fortuna, perché significa che vendiamo molta pasta nel mondo. Il
risultato però è che dobbiamo importarlo per forza. E non solo per un problema
di quantità. Il nostro Paese è troppo piccolo, ha solo lo 0,2% delle terre
emerse e appena 14 milioni di ettari coltivabili. Ci sono aree più vocate di
noi ai cereali come Canada, Australia e Usa dove si riesce a fare coltura
intensiva di buona qualità che dà granella con più proteine e glutine e
meno ceneri, quello che serve per rendere la pasta elastica e tenerla al dente”.
Insomma la scelta di rifornirsi all’estero sarebbe
dovuta, essenzialmente, alla carenza di materia prima e una qualità migliore
del prodotto. Alla domanda se il grano italiano sia
peggiore il Patron di Eataly ha risposto: “No. Tutt’altro. Da noi ci sono molte
produzioni di altissima qualità. Eataly confeziona paste fatte al 100% con
materia prima tricolore, eccellente. I contadini fanno bene a lamentarsi perché
il grano è pagato una miseria. La soluzione a questo problema però non è
il protezionismo, ma lavorare sulla qualità, valorizzando la biodiversità
garantita dalla posizione felice del nostro territorio”.
E più sotto dichiara “non possiamo
metterci a far concorrenza alla coltura intensiva: gli agricoltori devono pensare
a seminare cultivar antichi e trattarli in modo biologico. Guadagnerebbero
molto di più anche con minor resa dei campi”.
Se queste sono le motivazioni noi, crediamo, che qua e
là ci sia qualche crepa. Per esempio non si può affermare che in Italia mancano
le terre coltivabili e allo stesso tempo affermare che il grano ai contadini è
pagato una miseria. Da che mondo e mondo quando c’è mancanza di prodotto, i
prezzi tendono a salire. Non in questo caso perché? Perché l’Italia piccola e
oblunga non può competere (sui prezzi) con le agricolture di paesi che hanno grandi
estensioni, quindi come sempre è solo e soltanto una questione di costi e
ricavi.
Per esempio quest’anno la produzione in ambito
nazionale è stata di buona qualità per cui il crollo del prezzo dei cereali, compreso
il grano duro, è da attribuirsi solo a motivi speculativi. Movimenti affaristici
dovuti al fatto che ormai siamo dentro un mercato globale di cui anche Eataly fa
parte. Basterebbe pagare di più i nostri agricoltori per vedere un aumento
delle produzioni e una filiera tutta italiana.
E’ arrivata l’ora di smettere di giocare con le
parole. Quando si suggerisce agli agricoltori italiani di specializzarsi su
antiche colture trattate in modo biologico si decreta la fine della agricoltura
italiana, riservandogli una posizione di nicchia anche all’interno dello stesso
mercato nazionale.
Tutto questo ragionamento ci serve per dire che non
esistono anime innocenti che guardano alla qualità rinunciando a una fetta di profitto.
Il profitto, com’è normale che sia in un’economia di mercato, è la chiave di volta
di ogni decisone.
Sarà per questo che ci fanno orrore le semplificazioni,
i convegni sponsorizzati, l’uso di parole pesanti come “ambiente”, “salute”, “biodiversità”
per giustificare scelte imprenditoriali che guardano unicamente al guadagno e
la salvaguardia dell’ecosistema diventa l’arma da brandire sulla testa di altre
imprese.
Già da tempo abbiamo sollevato la necessità di
approfondire la proposta del distretto biologico in Valdichiana, liberandola
dalle pastoie ideologiche e dalle promesse di centinaia di posti di lavoro. In
troppi ne parlano senza riflettere sulle ricadute di tipo economico e sociale.
La verità è che ormai si rischia che le decisioni sul governo del territorio le
prendano i grandi gruppi economici, per i quali l’ambiente diventa un affare e
non un’opportunità di crescita per tutti. Tirate le somme e poi vedrete come
certe proposte rischiano di distruggere il sistema delle piccole imprese
agricole senza avere nulla in cambio. Ma su questo, anche a livello politico,
tutto tace.
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